Esistono storie, nella vita, che devono ripetersi.
Non c’è una legge ineluttabile che determini come e quando ciò accadrà, ma succede. Improvvisamente. Senza preavviso.
Quando ho cominciato ad ascoltare Bruce Springsteen avevo circa 12 anni. Con l’arrivo dell’adolescenza, quelle che prima potevano sembrarmi semplicemente delle piacevoli linee melodiche percorse dalla voce calda e imperfetta del Boss, sono diventate pagine della mia vita. All’inizio mi concentravo sulla musica, traducendo sommariamente quei testi, la cui grandezza ancora non avevo saputo cogliere. Ma durante l’adolescenza alcuni di quei pezzi avevano cominciato ad incastonarsi naturalmente come pietre miliari nell’architettura che, con fatica, ogni ragazzo cerca di realizzare di se stesso a quell’età. Un muro solido su cui poggiare più avanti il suo essere uomo o donna.
Così “I wish I were blind” leniva le pene d’amore, “Tougher than the rest” dava la carica per superare i propri limiti quando subentrava la paura di vivere e “The ghost of Tom Joad” aiutava ad alimentare la spinta creativa nelle notti insonni. Chiunque abbia amato una canzone profondamente, sa esattamente di cosa parlo. E’ come se la musica riuscisse ad entrare in risonanza con qualcosa di profondamente intimo ed intenso o, come mi piace ripetere, è in grado di “far vibrare l’anima”.
Ieri, mentre mi avvicinavo a piedi al Circo Massimo, tagliando per i vicoli di Trastevere, ero animato dal solito febbrile senso di attesa, eppure sentivo una cupezza sul cuore per gli ennesimi recenti episodi di violenza nel mondo. Stringevo la mano di mia moglie e un po’ avevo timore che potesse succederle qualcosa. Ma ogni passo che avanzavamo, ogni persona che incontravamo, l’attesa fanciullesca del Natale sembrava scardinare quel coperchio di cemento alimentato solo da un’inconscia fragilità. Già sul lungotevere, unendoci al fiume di gente che scorreva accanto all’altro fiume d’acqua, che si separa e si ricongiunge per far spazio all’Isola Tiberina, abbiamo iniziato a riprenderci il nostro spazio ed il nostro tempo. Una sorta di consapevolezza che prendesse forza dallo stare insieme, come la superficie di un lago che sia in procinto di ghiacciarsi, unendo tanti piccoli cristalli solidali tra loro. E poi la romanità, quella bella ed ironica delle vecchie generazioni ci ruba un sorriso, quando il poliziotto di turno, che perquisisce lo zaino, sapientemente riempito da mia moglie con felpe e un pò di frutta, fa “mbè che c’avete paura d’avè freddo?”. Ci sorride e ci lascia passare.
Siamo dentro.
Roma è più bella che mai. L’Aventino e il Palatino cingono l’immensa depressione della valle Murcia, il più grande circo romano dell’antichità, il Circo Massimo. Oltre duemila anni di storia ci guardano dalle rovine sopra di noi. Roma e l’occidente con lei, è nata a due passi da noi. Siamo nel centro del mondo e ci sentiamo esattamente come se non esistesse alcun altro luogo. Vedo e sento tanti turisti, molti americani, ma anche tanti tedeschi, francesi e scandinavi. I romani arriveranno, mi dico. Conosco i miei concittadini, pigri e indolenti, ma presenti quando conta. Il sole ancora batte forte sui profili irregolari della Roma antica e i pochi alberi nell’ellisse d’erba e polvere, sono presidiati dai tanti turisti accaldati, nonostante la giornata mite stia dando una tregua dall’afa estiva.
L’altoparlante dal palco annuncia che siamo già oltre 25000, ma è solo un numero che non rende la vastità e l’umanità che ci circonda. Il primo quarto del Circo Massimo si riempie di almeno quattro generazioni che si alternano negli sguardi e nel colore dei capelli. Avverto un senso di rassicurante positività, come se niente e nessuno possa turbare quell’atmosfera sospesa. Intanto sul palco annunciano i Counting Crows, la band di San Francisco capitanata da un bravo Adam Duritz, voce e sound tipico della west coast statunitense. Ce li godiamo mentre osservo l’arena riempirsi a vista d’occhio ed il sole abbassarsi verso il Tevere. Il tempo di un abbraccio a Lorenzo e agli altri amici che vengono da lontano per sentire il Boss. Ancora una volta in un rito che si ripete e che cambia allo stesso tempo. Sono entrati dalle Terme di Caracalla, l’ingresso più sontuoso e d’effetto che offra questa parte di Roma. Sentiamo tutti la storia addosso. Suggestione, si, ma anche qualcosa di sopito che sembra volersi ridestare questa notte. Chissà se il Boss se ne accorgerà…
Avanziamo, metro dopo metro e ci sistemiamo a non più di 100 metri dal pit. Andare oltre sarebbe inutile, troppa pressione e l’acustica da qui è più pulita.
Quindici minuti di ritardo, fa parte dello stesso rito, poi le note di “C’era una volta il West”, di Ennio Morricone, rendono la certezza di cosa sta per accadere. Ancora una volta.
Esistono storie nella vita che devono ripetersi.
E Bruce Springsteen lo sa. Era successo l’11 luglio del 2013, all’ippodromo delle Capannelle qui a Roma. Impossibile scordarselo. Dopo aver eseguito una folgorante “Incident on 57th Street” e aver stemperato il pathos di quell’incredibile ballata con Rosalita, fece calare le luci e le dita di Roy Bittan avevano iniziato a suonare un pezzo che mancava da troppo tempo nei live del Boss: “New York City Serenade”. Un brano interpretato all’epoca con l’aiuto magistrale degli archi della “Roma Sinfonietta Orchestra”. Un omaggio alla città eterna che era valso da solo il prezzo del biglietto.
Le rovine del Palatino si sono appena tinte d’ocra quando lo stesso Roy Bittan apre il concerto di Roma con la stessa intro strumentale che cresce fino all’esordio della voce di Springsteen:
“Billy he’s down by the railroad tracks
Sittin’ low in the back seat of his Cadillac
Diamond Jackie, she’s so intact
As she falls so softly beneath him
Jackie’s heels are stacked
Billy’s got cleats on his boots
Together they’re gonna boogaloo down Broadway
and come back home with the loot”
E’ la poetica delle comparse, degli antieroi che vivono in disparte e che di notte hanno il loro spazio scenico ed è allora che si muovono le loro storie. La voce è emozionata.
Il Boss si è accorto di Roma e vibra con noi.
Ne siamo tutti certi, ma la conferma arriva con la strofa che fa venire la pelle d’oca anche ai più duri: “It’s midnight in Manhattan,
this is no time to get cute
It’s a mad dog’s promenade
So walk tall or baby don’t walk at all”…
…“Perciò cammina a testa alta o baby non camminare affatto”…
Mi ripeto questa frase come un mantra. Non sono il solo questa notte…
I violini della “Roma Sinfonietta Orchestra” si aprono all’unisono, come tre anni prima e un’onda emotiva attraversa tutti e sessantamila i cuori riconoscenti intorno a noi. Sono lacrime trattenute e un profondo senso di riconoscenza ed identità. Bruce si è ricordato e come un fratello maggiore ha mantenuto la sua promessa con Roma. E allora la storia di Diamond Jackie, di Billy, di prostitute e di spacciatori che cantano come sirene nella notte di Manhattan, mentre passa il treno della redenzione che non prenderanno mai, diventano suggestioni travolgenti. Bruce è serio in volto, quasi sofferente, non sorride fino all’ultima nota poi, in un atto liberatorio regala nuovamente il suo sguardo benevolo ringraziando gli archi. Poi visibilmente emozionato, mentre sistema la chitarra con gli occhi bassi, aggiunge in un italiano sempre più sicuro: ”Ciao Roma… E’ bello essere nella città più bella del mondo…”. Poi, scherzando, aggiunge: “Roma daje!”.
E il popolo di Roma lo applaude come un nuovo imperatore, nella sua arena. Lui capisce e china il capo.
Poi come aveva fatto a San Siro, rompe quella tensione emotiva con l’energia del suo rock e interpreta una “Badlands” liberatoria. Adrenalina pura mentre la voce si scalda e aumenta pian piano di intensità. L’esordio va oltre le nostre aspettative. Ha saputo stupirci ancora e lo leggo anche negli occhi dei più anziani.
Poi in sequenza “Summertime Blues”, “The Ties That Bind”, “Sherry Darling”, “Jackson Cage” e “Two Hearts”.
La Luna, nata dietro l’Aventino si sta alzando sopra i pendii scoscesi di fronte a noi, mentre un sole diluito dal profilo dei palazzi e dai pini di Roma, sta incendiando il cielo in direzione di San Pietro. Allora il giovane Springsteen lascia la chitarra e interpreta il brano che più di qualsiasi altro dipinge il suo rapporto col padre e con la vita dalla quale è dovuto sfuggire per poter diventare Bruce Springsteen. “Indipendence Day”, una ballata malinconica, ma riconciliatrice, nonostante un testo duro e solo apparentemente definitivo.
Un brano che rappresenta per me una rivelazione e descrive quel preciso istante a cavallo tra l’essere un ragazzo ed un uomo, in cui comprendi che bisogna superare il passato, accettando di perdere alcune cose importanti, impossibili da trattenere, per poter crescere. Una pietra d’angolo nel mio muro in costruzione.
Su “Hungry Heart” il Boss si regala alle folle e con lui un impavido Jake Clemons che lo segue tra la gente. Due luci illuminano i due musicisti che continuano a suonare in mezzo al pit, che ribolle per l’emozione di poter toccare e stringere a sè il proprio idolo.
Poi in sequenza “Out in the Street”, “Boom Boom”, “Detroit Medley”, “You Can Look (But You Better Not Touch)” e “Death to My Hometown”.
Mi guardo intorno e la paura si è sciolta in lacrime di emozione. Bruce ha compiuto il miracolo. Come un druido celtico sta guidando la sua folla oltre le incertezze del suo tempo. Prende la chitarra acustica e quando tutti si aspettano The River, interpreta quella meraviglia bisbiglata che è “The Ghost of Tom Joad”. Un altro mattore del mio passato. Guardo il palco con gli occhi lucidi mentre cerco di dissimulare. Ricordo ancora quando comprai l’album omonimo insieme a mia sorella nel lontano novembre del 1995.
“The highway is alive tonight”…
Si ripete tre volte nel testo ed ogni volta la musica sembra voler esplodere con l’emozione di chi la ascolta.
Ma questa notte, quella vita di cui parla il Boss non è più soltanto quella degli “uomini che camminano lungo i binari della ferrovia, diretti da qualche parte dove non c’è ritorno”, ma è quella di una Roma che abbraccia idealmente il suo cantautore che viene da lontano.
Ma è solo l’inizio.
La stessa lama che aveva affondato solo una volta e non completamente a San Siro, è evocata nella polvere del Circo Massimo, dove viene calata lentamente nel cuore della gente, questa volta fino in fondo…
“The River” ne sostiene il pathos, poi una incredibile interpretazione di “Point Blank” che non avevo mai ascoltato in questa versione intimista e rallentata.
Intanto la notte è calata come un sipario di seta sul cielo della nostra città.
E allora Bruce incalza con “The Promised Land”, “Working on the Highway”, “Darlington County” e “Bobby Jean” che aveva cantato a San Siro tra le ultime.
Contrito, mentre pronuncia una frase per le vittime di Nizza, poi un regalo personale che il Boss ha voluto fare in primis a se stesso, alla sua storia d’amore con Patti Scialfa e un po’ a tutti coloro che grazie a questa canzone siano riusciti ad essere “più duri di tutto il resto”…
E’ “Tougher Than the Rest”, leggermente rallentata, come per voler trattenere le suggestioni che girano nella notte come delle lucciole sopra di noi. Chiama Patti accanto a se e cantano faccia a faccia sfiorandosi le labbra, in un evidente momento di autentica complicità. Sembra voler dire a tutti che se l’amore tra due persone può trascendere tutte le brutture del mondo, allora il compito che vuole lasciarci questa notte, attraverso la sua musica, è quello di portare avanti questo messaggio testimoniandolo ognuno con la propria vita. Un messaggio fortissimo che spazza via ogni dubbio su quale sia la strada da seguire… Il condottiero di mille battaglie ha parlato con l’unico strumento che conosce: la sua musica. Una stella polare che riduce a puro esercizio accademico ogni relativismo culturale e morale.
Si continua con una ”Drive All Night” che qualcuno chiedeva a gran voce, poi si torna a fare rock alla Springsteen con “Because the Night”, “The Rising”, “Land of Hope and Dreams” e “Jungleland”.
E’ un crescendo che diventa epico con le prime percussioni di “Born in the U.S.A.”, cantata con una rabbia insolita, quasi volesse ribaltare il senso di quel brano. Chi lo sente per la prima volta o non si è mai addentrato nel testo, può pensare sia l’elogio all’americanità anni ’80, una sorta di inno non ufficiale delgi Stati Uniti. Eppure il senso scaturisce proprio dall’antitesi tra quel “Born in the USA” e la vita miserabile che sono costretti a fare tanti americani per sopravvivere. Una canzone di denuncia sociale insomma, che non ammette repliche a quel ritornello che diventa una beffa. Ma questa notte è diverso. Springsteen, trasfigurato nel nuovo Cesare, acclamato dalla folla, sta gridando il suo senso di appartenenza a tutto l’occidente, che qui ha visto i suoi natali e sembra aver ribaltato il senso della canzone. Guardo la bandiera a stelle e strisce ed il tricolore che sovrastano i due lati del palco. I tratti del volto si irrigidiscono.Il ritmo è incessante, non lascia scampo e i sessantamila si uniscono a lui in un grido liberatorio.
Siamo noi. E’ la nostra terra, la nostra cultura, fatta anche di rock. Questo è tutto. Nessuno potrà mai spostarci.
Si prosegue in un incendio indomabile con “Born to Run” in cui si getta altra benzina sul fuoco, poi “Ramrod” e finalmente ”Dancing in the Dark”, dove salgono sul palco tre ragazze, una ragazzina che suona la chitarra con lui ed un piccolo percussionista che viene coinvolto da Max Weimberg alla batteria.
Ancora il tempo di ”Tenth Avenue Freeze-Out” e un’interminabile “Shout”, che ha l’effetto di una secchiata d’acqua ghiacciata sulla folla allo stremo, prima di guardare l’orologio e comprendere stupefatti che siamo oltre le 3 ore e quaranta minuti di concerto.
Solo il tempo di un abbraccio commovente a Jake Clemons, nipote di Big Man, che nella band è cresciuto tanto fino a diventarne un punto di riferimento.
Bruce Springsteen ringrazia, congeda una insuperabile E-Street Band, che stanotte è stata pirotecnica e si aggiusta l’armonica e la chitarra acustica. Rimane da solo sul palco, mentre, come di consueto, si accendono a giorno i riflettori sul Circo Massimo. E’ padrone di Roma, ma ne sente la responsabilità. Pronuncia ancora qualche parola mentre la voce sembra essergli scesa leggermente. Ripenso alla scaletta da canone inverso che ha martellato in crescendo fino alla fine e sorrido. Uno sguardo ancora alla sua arena, al suo popolo e alla città dove è magico suonare.
Poi “Thunder Road”.