Last Man Standing

SETTE ANNI

Sette anni sono lunghi.

Sette volte sette anni è il tempo da cui vivo sullo stesso pianeta del Boss. La cosa mi fa un pò sorridere e un pò impressione.

Quante cose possono accadere in sette anni nella vita di un essere umano…

Lui si è messo il vestito migliore. Non sto parlando della camicia abbottonata a nascondere le medaglie metalliche che porta al collo come un marine sopravvissuto a mille battaglie, né dei jeans grigio scuro che sono diventati quasi una divisa.

Lo sguardo da eterno ragazzo emerge vivido da un volto segnato dalla vita. Uno sguardo sincero, capace di sorriderti benevolo e farti sentire parte di una grande famiglia o di tener testa ai propri demoni, in abissi indicibili che ognuno di noi, prima o poi, si ritrova a dover affrontare.

E’ il 17 luglio 2016 e dopo quasi quattro ore di un concerto epico, che hanno cambiato per sempre la mia vita, Bruce rimasto solo sul palco, sistema una armonica davanti alla bocca, imbraccia la chitarra acustica e intona le prime strofe di Thunder Road. Una canzone di fuga e di redenzione, di sogni infranti e di sponde sconosciute cui è profetico approdare, dando nuovo senso alla propria vita. Il brusio di fondo del Circo Massimo si spegne, come lo scorrere del tempo che si fa testimone di una nuova intensità. Una ragazza, inquadrata sotto il palco, non riesce a trattenere le lacrime. Non è la sola.

It’s a town full of losers
I’m pulling out of here to win

Dopo le ultime note un applauso liberatorio si estende riconoscente tra Aventino e Palatino e quando Bruce scompare nell’ombra, le luci rimangono ad illuminare 60000 anime, emotivamente provate, che non riescono a muoversi.

Così ci aveva lasciati l’ultima volta.

E come sempre accade quando si viene investiti da un livello di intensità capace di scuoterti con vigore, in tanti abbiamo vagato, metaforicamente, ma anche fisicamente, prima di riassestarci e metabolizzare quello che ci era successo in quella magica notte d’estate. Qualcuno lo ha seguito al termine del tour Europeo a Zurigo, qualcun altro, più semplicemente, è dovuto tornare al Circo Massimo la mattina seguente, sperando che quella magia fosse ancora sospesa nell’aria.

Poi gli ultimi anni, complicati, per qualcuno di introspezione, per qualcuno di rassegnazione e per qualcun altro di rabbia.

La pandemia, le guerre, le alluvioni.

Bruce ha sofferto più di tanti quella solitudine, divorato da quel demone che “si è riversato sulla sua vita come olio”, come scrive testualmente, parlando della depressione, in quel capolavoro letterario che è la sua autobiografia “Born To Run”.

Il contatto col pubblico non è solo drammaticamente necessario, ma in qualche modo salvifico.

Esiste poi quel dono, non so come altro chiamarlo, che lui ha sempre avuto nel contatto con la gente. Quell’energia debordante, dai toni vigorosi e a tratti consolatori, che si tramuta in un’onda montante. Quell’onda ti sprona ad uscire migliore di come ci sei arrivato all’incontro con lui.

Poi il ritorno a Ferrara e le polemiche sull’opportunità di cancellare il concerto, di una parola di circostanza, di un atto concreto a favore delle zone alluvionate. Quanto odio gratuito è stato sparso dalla sicurezza di chi sa sempre e comunque giudicare, ma a volte non è in grado di amare e di comprendere più in profondità chi è e cosa prova quel ragazzo del New Jersey.

Ma Bruce va ascoltato. E lui ha parlato chiaramente.

CATARSI – CACCIATORI DI EMOZIONI

Sono le 12.30 e parcheggiamo tra la fontana dell’Acqua Paola e San Pietro in Montorio. Da quassù Roma è ancora più bella e un caldo sole accarezza il Gianicolo, mentre nembi minacciosi si avvicinano da sud-est.

Mentre superiamo l’Accademia di Spagna, mi tornano in mente le parole di Stendhal, che sono riportate proprio accanto al Tempietto del Bramante: “Questa mattina, 16 ottobre 1832, mi trovavo a San Pietro in Montorio, sul monte Gianicolo, a Roma, e c’era un sole magnifico. Un leggero vento di scirocco appena percepibile faceva muovere alcune nuvolette bianche sopra il monte Albano; un tepore delizioso regnava nell’aria, ero felice di vivere… Questo luogo è unico al mondo, mi dicevo sognando, e la Roma antica, mio malgrado, superava quella moderna, tutti i ricordi di Livio tornavano ad affollare la mente.”

Certo dovremo risalire a fatica dopo il concerto, ma almeno non rischiamo di rimanere imbottigliati nel caos che già domina il lungotevere.

Percorriamo le scalette che ci separano da Via Garibaldi, passando accanto alla Via Crucis, non immaginando quanto profetiche saranno quelle immagini in terracotta. E la calma sospesa del Gianicolo lascia spazio all’operoso brusio dei vicoli di Trastevere, la zona della mia città che da sempre preferisco. Mangiamo un panino al volo mentre cerchiamo di guadagnare l’ingresso di Piazza della Bocca della Verità, subito al di là dell’Isola Tiberina. Intorno a noi le prime magliette del Boss che si mescolano confusamente alla moltitudine di turisti che affollano Roma.

Sono le 13.50 e davanti a noi un centinaio di metri di fila prima dei varchi dell’ingresso 3. Mi ero studiato pazientemente le vie di accesso per ottimizzare la possibilità di raggiungere una buona posizione subito dietro al Pit, ma i miei sforzi verranno vanificati dall’organizzazione, che ha unificato i flussi dal lato di Viale Aventino, per motivi di sicurezza. Pazienza. Si aprono i cancelli con una mezz’ora di ritardo e le promesse di pioggia all’orizzonte si sono concretizzate con minacciose nuvole grigie dai toni plumbei. Poco dopo inizia a piovere con convinzione. Stefania, mia moglie è al suo quinto concerto e sa cosa aspettarsi. Ci siamo appena riuniti con una coppia di amici e tutti e quattro siamo ben equipaggiati con keyway e teloni protettivi. Francesca è una fan di lunga data, una che il Boss l’ha visto già negli anni 80 dalle prime file, Fabio, suo marito, la accompagna ma non ha mai visto Springsteen dal vivo. Beato lui, penso tra me e me. Chissà se il miracolo si ripeterà anche questa volta.

Mentre entriamo dalla scalinata di Via del Circo Massimo prendo coscienza di quanto sia ampia l’ellisse del circo romano adagiato nella Valle Murcia e di quanto sarà difficile arrivare davanti. Ma non demordiamo, proprio mentre la pioggia si fa più insistente e ci facciamo strada tra due ali di folla che iniziano a riempire tutti gli spazi vuoti. Arriviamo a non più di una trentina di metri dietro il pit, sul lato di Via dei Cerchi. Sorrido pensando che siamo probabilmente nella stessa posizione del 2016.

Il cielo non lascia scampo ed inizia l’attesa, faticosamente in bilico sul declivio erboso. Poi, come succede spesso a Roma, la pioggia aumenta di intensità, assumendo proporzioni monsoniche. Anche il telone da campeggio, provvidenzialmente portato da Fabio, si riempie di pioggia. L’erba diventa fango e l’umidità si insinua attraverso i vestiti. Ci copriamo dentro i cappucci mentre la folla inizia a fischiare contro il fato avverso, come se avesse un interlocutore diretto cui rivolgersi. Ma la gente intorno a noi sorride. E’ la terra promessa che ci attende e tanto disagio non può che amplificare il piacere che seguirà. La pioggia continua a cadere in una danza catartica.

Poi improvvisamente si placa, senza preavviso, mentre White Buffalo inizia a cantare le sue ballate country-rock. Ha una voce calda che ricorda più il primo Eddie Vedder dei Pearl Jam che Bruce Springsteen. Ha la verve di un rocker consumato e i bassi della sua voce si fondono perfettamente con le armoniche della chitarra acustica. Davvero bravo.

Poi è la volta di un emozionato Sam Fender, il Bruce Springsteen inglese dice qualcuno. Difficile seguire il parallelismo, io ascolto un artista giovanissimo e di talento, che sa suonare e sa stare sul palco. Non crede alle proprie orecchie quando il pubblico lo incoraggia riconoscente e intona il ritornello di una delle sue hit. Lui si è ispirato al Boss racconta e ancora non può credere di trovarsi qui.

Si perché suonare a Roma, al Circo Massimo, non è come trovarsi in un qualche stadio anonimo in giro per il mondo. Hai davanti agli occhi una massa multicolore che ti acclama, mentre millenni di storia si accalcano come vecchi satiri sulle rovine che ti circondano. E’ questo che Bruce sta aspettando.

Davanti a noi un ragazzo giovane, avrà più o meno ventisette anni, gli stessi di Fender. Ha ancora al polso il bracciale del pit di Ferrara. Viene da lontano. Scambiamo qualche battuta, poi arriva un suo amico che lo abbraccia. Sono di Brescia, entrambi sono stati nel pit a Ferrara e hanno ancora gli occhi spiritati. Scopro che sono due chitarristi e la camicia a quadri del nuovo arrivato mi ricorda tanto quelle camice anni 80, stile Asbury Park, che indossava il nostro idolo. Gli facciamo spazio e poco dopo, per ringraziarci di averli accolti ci offrono una birra. E’ la magia di condividere qualcosa cui è difficile dare forma. Quanto mi mancava questa umanità e con che colpevole difficoltà si ritrova nella vita di tutti i giorni.

“Ho sentito dei cali di voce su Born in the USA…”

Mi pento subito dopo aver pronunciato queste parole. Springsteen ha 73 anni, una vita piena alle spalle e migliaia di concerti dal vivo che hanno provato le sue corde vocali. E ha un vantaggio su tutti, che pochi considerano: le note, come il suo stile musicale è “sporco” nel senso artistico del termine. Non si viene ad un concerto del Boss per ascoltare l’asettica perfezione di voce e musica, ma per emozionarsi. E’ la voce roca e graffiata dell’ex ragazzo del Jersey che fa la differenza, insieme ad una partecipazione palpitante.

Mi guarda con un sorriso che sembra dirmi: “Aspetta e vedrai!”

Sono le 19.27 e l’inizio è previsto per le 19.30.

“Ritarderà come sempre, non prima delle otto secondo me”.

Intanto un cielo celeste e luminoso sta spazzando via le nuvole ormai rarefatte verso ovest e un sole di tre quarti inonda i volti, nell’attesa di una moltitudine che prende colore.

Migliaia di anime a caccia di emozioni.

IL RITO SI RIPETE

Un minuto dopo, a sorpresa e in anticipo, entra in scena la E-Street Band: uno dopo l’altro sfilano sul palco Nils Lofgren, Garry Tallent, Max Weinberg, Roy Bittan, Soozie Tyrell, Jake Clemons e Charlie Giordano. Manca Patty Scialfa. L’esplosione del pubblico per un piratesco Stevie Van Zandt, prelude di pochi istanti quello per l’ingresso di Bruce nella sua arena. Fa un cenno al pubblico, roteando il braccio destro, come per verificare che la sua alchimia con quel luogo, che aveva lasciato una notte d’estate di sette anni prima, non si sia allentata. Roma risponde con un boato che intimidisce il ricordo dei tuoni di qualche ora prima.

“Ciao Roma!”

Ma manca qualcosa e lo recupero rapidamente tra i miei pensieri in subbuglio. Se il concerto del 2016 aveva chiuso dei cerchi, a cominciare da “New York City Serenade”, suonata con la SInfonietta Orchestra per la seconda volta dopo la chiusura del 2013 a Capannelle, il concerto di oggi rompe dei vincoli ideali. Ed il primo tra tutti è la mancanza del tema musicale di “C’era una volta il West” ad annunciare lo spettacolo. Eravamo abituati, nei concerti italiani, alla consuetudine di omaggiare Ennio Morricone, artista così amato dal Boss. Cerco di darmi una spiegazione sensata, ma non la trovo. Il format è cambiato. Chi conosce Springsteen sa che lui parla per simbologie e attraverso i testi e la sequenza delle sue canzoni. Così è stato dopo gli attacchi dell’11 settembre a New York, quando è nato “The Rising” o quando ci rassicurò proprio perpetrando il suo rito pagano, due giorni dopo gli attentati di Nizza nel 2016, con l’apertura di New York City Serenade e tenendoci nel suo mondo per quasi quattro ore. Ci aveva dato speranza per un futuro che non era e non è ineluttabile e in cui ognuno è la voce in un coro polifonico.

Mai un messaggio retorico o una semplice frase di circostanza, ma sempre molto più onesto e sentito. E’ il modo in cui parlano gli artisti e fa sorridere il tentativo di trascinarlo nell’agone della consuetudine o del politicamente corretto. Ma tutto sarà più chiaro qualche minuto dopo.

“My Love Will Not Let You Down” (“Il mio amore non ti deluderà”)

Non una parola appunto. Non è forse il fatto stesso di offrire questo suo messaggio, il messaggio più nobile e di esempio per tutti noi? Senza che nessuna debba suggerirgli, come farebbe con una persona qualsiasi, cosa dire o cosa fare?

Il suo popolo, che lo acclama e che non giudica, come nella canzone di apertura capisce che si può fidare dell’amore ricambiato che lo lega al suo idolo.

Nemmeno il tempo di riprendere fiato che la batteria di Mighty Max diventa un martello e scandisce le sonorità celtiche di “Death to My Hometown”. Un grido di dolore contro il “male” portato alla propria gente non dalla guerra, ma dall’avidità e dalla dissolutezza. La guerra è qui utilizzata come paradosso, ma il pensiero corre veloce all’attualità.

Poi arriva il messaggio di “No Surrender”, suonata con un’energia ed un’intensità particolare. Aveva aperto con questo pezzo a Ferrara. Questo è l’altro grande messaggio della poetica springsteeniana. Non arrendersi, ma continuare a combattere ricordando l’antica promessa.

We made a promise
we swore we’d always remember
no retreat, believe me, no surrender
blood brothers in the stormy night
with a vow to defend
no retreat, believe me, no surrender

Abbiamo fatto una promessa
abbiamo giurato che ci saremmo sempre ricordati
nessun ritiro, credimi, nessuna resa
fratelli di sangue nella notte tempestosa
con un giuramento da difendere
nessun ritiro, credimi, nessuna resa

Poi subentra il tema della morte, che legherà doversi brani in un filo conduttore unitario. “Ghosts” ha una struttura semplice e ripetitiva che viene resa viva dal dinamismo della E-Street Band. Qui il Boss inizia a parlarci di quello che lo tormenta e in fondo tormenta ognuno di noi. Ma lo fa passare sotto traccia, con l’inganno di sonorità apparentemente gioiose, esaltate dal sax di Jake Clemons.

It’s just your ghost
Moving through the night
Your spirit filled with light
I need, need you by my side
Your love and I’m alive

I’m alive and I can feel the blood shiver in my bones
I’m alive and I’m out here on my own
I’m alive and I’m coming’ home
Yeah I’m comin’ home

È solo il tuo fantasma
Che si muove attraverso la notte
Il tuo spirito pieno di luce
Ho bisogno, ho bisogno di te al mio fianco
Il tuo amore e io sono vivo

Sono vivo e posso sentire il fremito del sangue nelle mie ossa
Sono vivo e sono qui da solo
Sono vivo e sto tornando a casa
Sì, sto tornando a casa

Nemmeno il tempo di respirare e attacca con “Prove it Night”, attingendo alla fonte della propria ispirazione. Il pubblico lo sente e lo segue. Tanti con i capelli grigi, ma anche tanti ragazzi. Bruce arringa il pubblico chiamando ripetutamente “Roma”, mentre l’instancabile suono del sax e delle chitarre elettriche preparano alla prossima strofa. Siamo al quinto brano e non c’è stato un momento per riprendere fiato, in un’onda emotiva che ci ha colpito come una marea crescente. La voce è ferma, ben intonata e non sembra avere cedimenti. Poi la sorpresa.

“Darkness on the Hedge of Town”

E’ il tempo della durezza della vita, delle promesse infrante, degli amori finiti, delle redenzioni mancate e della disillusione. Il ritmo è incalzante, come quello della vita, che a volte colpisce duro e sembra che l’unica soluzione sia una resa colma di risentimento.

Tonight I’ll be on that hill ‘cause I can’t stop
I’ll be on that hill with everything I got
With our lives on the line where dreams are found and lost
I’ll be there on time and I’ll pay the cost
For wanting things that can only be found
In the darkness on the edge of town
In the darkness on the edge of town

Stanotte sarò su quella collina perché non posso fermarmi
Sarò su quella collina con tutto quello che ho
Con le nostre vite in gioco dove i sogni si trovano e si perdono
Ci sarò in tempo e pagherò il prezzo
Per volere cose che possono essere trovate solo
Nell’oscurità ai confini della città
Nell’oscurità ai confini della città

Forse anche per questo il Boss è così amato, per la sua capacità di raccontare la vita, quella vera, che spesso è ostaggio anche di sentimenti poco nobili, dettati dalla sconfitta e dalla disperazione. Gli antieroi che popolano le sue canzoni, fantasmi di un mondo immaginifico, ci assomigliano maledettamente.

Poi tutto diventa intimista e Bruce si apre a noi con quello che ha raccolto nella sua vita. I versi, tradotti in italiano, della lettera che ha rivolto proprio a noi in “Letter to You”, scorrono sugli schermi del palco. E’ la prima volta che accade. Questa è un gesto di avvicinamento al suo pubblico per rendere fruibili a tutti quelle meravigliose pennellate di verità che rimangono vivide nel tempo.

I took all the sunshine and rain
All my happiness and all my pain
The dark evening stars
And the morning sky of blue
And I sent it in my letter to you
And I sent it in my letter to you

Ho preso tutto il sole e la pioggia
Tutta la mia felicità e tutto il mio dolore
Le stelle della sera oscura 
E il cielo azzurro del mattino
E li ho inviati nella mia lettera per te
E li ho inviati nella mia lettera per te

Si tratta di una seconda “irritualità” che ne compenserà una terza: il fatto di non prendere i cartelli dal pubblico per improvvisare qualche brano fuori scaletta. Tutto appare studiato e preparato con la sua proverbiale precisione, da gran professionista qual è. Forse una fase nuova derivante dalla lunga esperienza teatrale di “Springsteen on Broadway”. Qualcuno lo avrà apprezzato di più, qualcuno di meno, probabilmente siamo entrati semplicemente in un’altra fase artistica del Boss.

O ci sta dicendo altro? Dei brividi freddi mi corrono lungo la schiena. Spero sia solo a causa dell’umidità che ho preso per ore e non che il mio subconscio stia elaborando qualcos’altro.

Le note di “The Promised Land” fanno da contraltare a quella rabbiosa disperazione che era stata evocata in Darkness on the Hedge of Town. Qui l’eroe di tutti i giorni si mette in marcia per affrontare la tempesta che spazzerà via tutto ciò che “non ha la fede per resistere”. Non parla di fede religiosa ma della solidità con cui si costruiscono i propri sogni e le proprie speranze.

There’s a dark cloud rising from the desert floor
I packed my bags and I’m heading straight into the storm
gonna be a twister to blow everything down
that ain’t got the faith to stand its ground
blow away the dreams that tear you apart
blow away the dreams that break your heart
blow away the lies that leave you nothing
but lost and brokenhearted

C’è una nube scura che si alza dal suolo del deserto
Ho fatto le mie valigie e sto andando dritto nella tempesta
ci sarà un tornado che farà crollare tutto
ciò che non ha la fede per resistere
spazza via i sogni che ti lacerano
spazza via i sogni che ti spezzano il cuore
spazza via le bugie che non ti lasciano niente
se non perso e con il cuore spezzato

Bruce sale le scalette del palco suonando l’armonica mentre Jake Clemons e tutta la sezione fiati danno il senso della canzone con un assolo che strega gli occhi sognanti di un pubblico in delirio. Credo di avere gli stessi occhi dell’amico chitarrista conosciuto prima dell’inizio. Erano sette anni che non avevo quegli occhi.

Poi il senso liberatorio di “Out in The Street” con i cori del pubblico che cadenzano i colpi della batteria che batte regolare come il cuore di questa notte che sembra infinita.

Dal senso di libertà dato al protagonista, che smette la tuta di lavoro di scaricatore di porto e va a ballare per la strada, all’iconografico cartello di una spogliarellista che è appena tornata in un locale di streaptease, che ha ispirato la canzone: “Kitty’s Back”. La musica prende i toni del jamming jazz con le trombe che si inseguono in virtuosismi dalle evoluzioni funamboliche con tinte anni 50 e 60. Fino a questo momento non ci eravamo accorti di quanti elementi a fiato componessero la sezione.

E’ il momento della prima cover della serata: “Nightshift”, dei Commodores, che si traduce letteralmente in “Turno di notte”. Bruce ama molto questo pezzo ed è un regalo che fa a se stesso e a tutti gli appassionati. Le voci dei grandi del passato riprendono vita ogni qual volta qualcuno le ascolti, come se da qualche parte sfilassero in un infinito e consolatorio “turno di notte”. Bruce sa che presto questo accadrà anche a lui e il pensiero ribatte sul tema dell’assenza. Capisco che non può essere un caso, vuole dirci qualcosa.

Uno straordinario Curtis King duetta nei cori dando una profondità soul al brano.

La conferma definitiva arriva dopo l’esecuzione di una partecipatissima “Mary’s Place”, in cui si diverte in un calando e crescendo con il pubblico e “The E-Street Shuffle”.

Come in una prosa teatrale (preparata, ma terribilmente emotiva ed onesta) Bruce prende il microfono e illumina due scene, apparentemente antitetiche, della propria vita:

Lui ha 15 anni e il suo amico George Theiss, che all’epoca aveva una storia con sua sorella (“But’ it ok”) ha sentito dire che lui suona la chitarra e lo convoca qualche giorno dopo per un’audizione nel gruppo dei Castiles. Il giovane Springsteen entra nella band dove trascorre ben tre anni, “una vita” a giudicare da come scorre il tempo per un adolescente.

La scena si sposta in un giorno d’estate di 50 anni più tardi, sul letto di morte dell’amico. La voce recita, ma è rotta in una commozione autentica. Sta piangendo la scomparsa del suo amico, ma anche quella di frammenti della storia che lo ha reso quello che è. E ora parla direttamente della morte.

“E’ come ritrovarsi in piedi sui binari
illuminati dalla calda luce bianca di un treno
che sta per piombarti addosso.
Ti da una certa chiarezza di pensiero
mai provata prima.
L’ultimo eterno regalo che la morte dona ai viventi
è una visione più ampia della vita.
George è scomparso
e poco dopo ho scritto questa canzone.
Si tratta delle passioni che inseguiamo da bambini
non sapendo dove ci condurranno.
A 15 anni ci sono solo i “domani” e i “buongiorno”.
Andando avanti
ci molti più “ieri” e “arrivederci”.
Mi ha fatto comprendere ancora di più (anche se è un cliché aggiunge)
quanto è importante vivere ogni momento.
E quindi siate buoni verso voi stessi
verso coloro che amate
e verso il mondo in cui viviamo.
Questo è “L’Ultimo Uomo Rimasto”.

E’ lui l’ultimo Uomo rimasto di quella band adolescenziale e a lui spetta cantare “Last Man Standing”. La voce è emozionata e il pubblico partecipa rapito. Ognuno pensa a chi ha perso lungo il cammino e in silenzio gli dedica la stessa canzone. Una tromba rende solenne ogni strofa. Imperioso l’acuto finale a cappella. Ho le lacrime agli occhi e le trattengo per non crollare in un pianto che non fermerei, tanto palpabile è la tensione emotiva che ci avvolge. Incrocio qualche sguardo. Nessuno osa dire una parola, solo uno scrosciante applauso.

Ma come siamo abituati, Bruce utilizza quella tensione per darci il colpo di grazia. Roy Bittan martella i tasti del pianoforte con le note di Backstreets, una canzone che parla di un’amicizia perduta e questa volta è davvero dura. E’ una delle mie canzoni preferite e idealmente la abbino sempre a No Surrender. Non chiedo di meglio, per me è già tutto perfetto così.

Imbraccia la sua Fender Telecaster segnata come il suo viso e racconta di come si incontrasse con Terry nei vicoli popolati da figure di disperati.

Endless juke joints and Valentino drag
where dancers scraped the tears
up off the street dressed down in rags
running into the darkness
some hurt bad some really dying at night
sometimes it seemed you could hear the whole damn city crying

Circondati da locali da due soldi tirati a lucido
dove ballerini vestiti di stracci
raschiano le lacrime dalle strade
correndo nel buio
qualcuno ferito gravemente
qualcuno sul punto di morire
la notte a volte ti sembrava
di poter sentire piangere tutta la maledetta città

Poi la musica si abbassa, lui si colpisce il petto all’altezza del cuore e sussurra ripetutamente “I wanna carry right here” (“voglio custodirvi qui”). Ma non guarda in alto, guarda noi. Forse si riferisce a Terry, forse a tutte le persone che ha perso lungo il cammino o forse si riferisce a tutti noi. E’ forse il suo modo per dirci addio?

Usciamo da quei vicoli con la spinta corale di una “Because The Night” che non ci ha fatto mai mancare qui a Roma. Il Boss è ispirato e reagisce con forza al momento di commozione cantando a squarciagola di quell’amore tra amanti che è anche quello che lo lega al suo pubblico.

La strada che porta alla salvezza passa per “She’s the One”, “Wrecking Ball”, “The Rising” e poi “Badlands”. L’ultimo brano, secondo in scaletta, ci aveva risvegliato dal torpore di “New York City Serenade” e aveva scatenato il Circo Massimo anche sette anni prima.

Per me la redenzione si chiama “Thunder Road” che stanotte viene eseguita nella sua versione rock con la E-Street Band. Una apoteosi personale che sembra essere condivisa intorno a me, illuminando 60000 piccole anime nella notte. Una falce affilata di Luna fa capolino alla destra del palco, sulle rovine di Roma, vigilata da una Venere splendente.

Per me potrebbe finire qui. E sembra davvero che il concerto sia terminato, con Bruce che tiene tutti per mano e accompagna uno ad uno, i suoi musicisti, verso la scaletta d’uscita. Prima di rispondere al richiamo del pubblico.

ACROSS THE BORDERLINE

Si riparte con due scariche d’adrenalina in sequenza che si chiamano “Born in the USA” e “Born to Run”. E’ iniziato un concerto nel concerto e si ripercorrono gli anni ruggenti del Boss, quelli della critica dolorosa per il suo paese, la condanna a non fermarsi mai, contro tutto e contro tutti, animato da un fuoco mai sopito, che lo ha portato ad essere Bruce Springsteen. Sono le pagine classiche della poetica springsteeniana, che ci conducono indietro negli anni fino alle note di “Bobby Jean” e “Glory Days”.

l chitarrista con la camicia a scacchi anni 80 si gira verso di me sui primi acuti di Born in the USA e suggerisce con gli occhi: “Lo senti che non cede?”. La voce è roca ma ancora potente in un’esaltazione contagiosa.

“Avevi ragione”, gli rispondo.

In “Dancing in the Dark” è a suo agio, pur non portando più una ragazza sul palco come faceva un tempo. Ma scherza con il pubblico ballando al ritmo incessante di una delle canzoni più suonate dal vivo negli ultimi 50 anni, insieme ad “Out in The Street”.

Il colpo finale per esaltare la E-Street Band con “Tenth Avenue Freeze-Out”. Sono stati tutti superbi e farei torto a qualcuno se esaltassi soltanto uno di quegli immensi musicisti. Non serviva la Rock & Roll Hall of Fame del 2014 per riconoscere che si tratti della band Rock & Roll vivente migliore al mondo. Ascoltarla dal vivo per crederlo.

Escono tutti di scena e si spengono le luci. Sentiamo che la fine è vicina e come ogni volta penso: “Addio Bruce!”.

Il popolo del Circo Massimo lo acclama con quel “Ohhh Oh Oh Ohhh Ohh” che tiene viva la ritmica di “Born to Run” o di “The River”.

Un faro lo illumina nel buio, lui si gira e torna verso di noi. Ancora una volta.

Il momento dell’ultimo pezzo in acustico, che questa volta non può che essere “I’ll see in My Dreams”.

“Roma ti amo”.

Poi, come sette anni prima, sistema l’armonica, imbraccia la chitarra acustica, ci guarda negli occhi, ad uno ad uno e inizia a suonare. Sullo sfondo, ancora una volta, si alternano le strofe tradotte nella lingua del suo popolo.

In quella liturgia pagana che solo un concerto di Bruce Springsteen sa essere, questo è l’unico cerchio che deve chiudersi.

E’ lui da solo ad accomiatarsi da noi. A nudo senza la band a proteggerlo.

The road is long and seeming without end
The days go on, I remember you my friend
And though you’re gone and my heart’s been emptied it seems
I’ll see you in my dreams

I got your guitar here by the bed
All your favorite records and all the books that you read
And though my soul feels like it’s been split at the seams
I’ll see you in my dreams

I’ll see you in my dreams 
When all our summers have come to an end
I’ll see you in my dreams 
We’ll meet and live and laugh again
I’ll see you in my dreams 
Yeah, up around the river bend
For death is not the end
And I’ll see you in my dreams

I’ll see you in my dreams 
When all our summers have come to an end
I’ll see you in my dreams 
We’ll meet and live and laugh again
I’ll see you in my dreams 
Yeah, up around the river bend
For death is not the end
And I’ll see you in my dreams
(See) you in my 
See you in my dreams

Go

And I’ll see you in my dreams

La strada è lunga e sembra senza fine
I giorni passano, mi ricordo di te amico mio
E anche se te ne sei andato e il mio cuore è stato vuoto, forse
Ti vedrò nei miei sogni

Ho la tua chitarra qui vicino al letto
Tutti i tuoi dischi preferiti e tutti i libri che leggi
E anche se la mia anima si sente come se fosse stata divisa nelle cuciture
Ti vedrò nei miei sogni
Ti vedrò nei miei sogni quando tutte le estati saranno finite
Ti vedrò nei miei sogni, ci rivedremo in un’altra terra
Ti vedrò nei miei sogni, sì, dietro l’ansa del fiume
Perché la morte non è la fine
E ti vedrò nei miei sogni

Ti vedrò nei miei sogni quando tutte le estati saranno finite
Ti vedrò nei miei sogni, ci rivedremo in un’altra terra
Ti vedrò nei miei sogni, sì, dietro l’ansa del fiume
Perché la morte non è la fine
E ti vedrò nei miei sogni
Ti vedrò nei miei sogni
Ti vedrò nei miei sogni

Vai!

E ti vedrò nei miei sogni

La morte non è la fine di nulla, è solo la prossima ansa del fiume. E se non possiamo essere certi di ciò che ci sarà dopo questo passaggio, è sicuro che rimarremo almeno nei sogni di chi ci ama.

Bruce è più fragile e consapevole che mai e non lo nasconde. Sente avvicinarsi la morte come quel treno in corsa che aveva evocato presentando “Last Man Standing”. Lui, in piedi tra i binari sta fissando quei fari di luce che gli vengono incontro. Ma non ha paura, la sua è quasi una laconica rassegnazione. Forse proprio in quella ineluttabilità ritrova il senso della propria vita ed il suo valore.

Dopo l’ultima nota ci saluta, ringraziando noi di questa notte fantastica.

Rimane immobile per un attimo, accennando un sorriso, quasi non volesse separarsi da ciò che lo tiene in vita.

Poi scompare nel buio.

Mi accorgo solo ora che il Circo Massimo è illuminato a giorno. Sono sospeso in una bolla e vedo tante persone con gli occhi lucidi. Guardo Stefania e i nostri due compagni di viaggio, esausti ma felici. Il chitarrista davanti a me si gira e ci abbracciamo. Non serve parlare.

Il miracolo si è ripetuto.

Ancora una volta Bruce, fai che sia solo un arrivederci!

Giovanni Trombetta

Note di Servizio

Ci ho messo due notti a metabolizzare tutto il vissuto di domenica e, per quanto abbia cercato di isolarmi, ci sono tante recensioni meravigliose che qui vi ripropongo e che in qualche modo mi hanno condizionato nella scrittura.

Desidero rendere loro omaggio nella lista che segue:

Di Dario Migliorini: “RECENSIONE CONCERTO BRUCE SPRINGSTEEN FERRARA 18 MAGGIO 2023“.

Di Paolo Cognetti: “Una cerimonia di vita e di morte: Paolo Cognetti al concerto di Springsteen con Vasco Brondi“.

Di Dario Migliorini: “RECENSIONE CONCERTO BRUCE SPRINGSTEEN ROMA 21 MAGGIO 2023“.

Di Matteo Bartocci: “L’ultimo Uomo Rimasto“.

6 thoughts on “Last Man Standing

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